Laboratorio urbano - Mente locale

Il Laboratorio urbano - Mente locale è una iniziativa di auto mutuo aiuto che nasce tra i servizi della salute psichica e mentale del ASLTO1 di Torino. Inizia le sue attività il Giugno del 2000 e ci si incontra una volta alla settimana il Martedì mattino dalle 11.00 alle 13.00 circa, a Cascina Roccafranca, via Rubino 45, Mirafiori nord, Torino. Chi vuole sapere di più può scrivere a :laburb@libero.it




venerdì 7 febbraio 2014

Orfeo1: Coincidenze




 Coincidenze: Jung probabilmente non le avrebbe chiamate così… Ma andiamo con ordine. Non più tardi di due settimane fa, passeggiando animatamente per le vie del centro di Torino dove abito (un quotidiano esercizio per il sollievo dello stress? Diciamo piuttosto una piacevole abitudine) mi imbatto presso una piccola libreria che espone anche una serie di libri cosiddetti “usati” (meglio dire “già letti”) un vecchio testo del 1978 dal titolo più che interessante: Il linguaggio della follia. Ovviamente non me lo faccio scappare. L’autore è un certo David Cooper… mai sentito (scoprirò facilmente sulla rete che Cooper è nientepopodimenoche il coniatore del termine “antipsichiatria” un sodale di Laing e Foucault: l’ignoranza non ha confini, per fortuna vi si può rimediare).
Tesi di questo testo (che rappresenta l’ultimo lavoro importante di Cooper, stando a wikipedia): la follia è dentro ciascuno di noi, è la realizzazione stessa del linguaggio («non è l’inconscio che è un linguaggio, è il linguaggio che è un inconscio») è un processo di destrutturazione-restrutturazione della nostra esistenza, un’esperienza fondamentale, è la messa in pratica di una «rivoluzione permanente».    
Il libro, dedicato al «primo rivoluzionario, quello che in ciascuno di noi», poggia le basi (solide) sui concetti di dialettica marxista di una società dominata dall’opposizione tra sfruttatori e sfruttati, critica fortemente e accusa tutte le «mistificazioni» che si frappongono fra noi e la follia che è in noi. La psichiatria, certo, ma prima ancora la familizzazione, in generale tutte le psicotecniche professionistiche che pretendono di veicolare una “terapia” (incluso una forte critica alla psicanalisi intesa come residuo «borghese delle forme di familizzazione»). La prospettiva che Cooper disegna(va) era perciò destinata (retoricamente, ma come diceva Pasolini a volte la retorica è l’unico modo di dire la verità) alla realizzazione liberata della follia, alla messa in pratica della rivoluzione permanente, che ha valore politico, ma non è «una rivoluzione politica, è una vera rivoluzione sociale». Riguarda noi e gli altri, la società appunto, e la cultura, aggiungo. Punto di approdo e chiave di volta di questa rivoluzione, il linguaggio che nella follia «coincide con il linguaggio poetico». Cooper traccia una serie di alternative e prassi differenziando i «bisogni dell’avere» (imposti dalle psicotecniche istituzionalizzate) e i «bisogni di agire per essere» (creati nella follia) tra i quali l’esprimersi creativamente, la comunicazione non esigente (senza significati – «ordini» –  reconditi), la realizzazione di una sessualità orgasmica (ovvero svincolata dal legame «riproduttivo» dettato dalla familizzazione); la riappropriazione e la de-terrorizzazione della morte (l’unica finale vera «proprietà privata»). Infine intrinsecamente la realizzazione della follia, ovvero la rivoluzione sociale che ci porta ad essere sociali ed attivi per e nella vita, con gli altri. Sottolineo ancora un punto chiave, legato alla realizzazione poetica del linguaggio, che mi sta a cuore: l’espressione dei silenzi «propri, interni alle parole», giacché «nella vita, ciascuno di noi, ha veramente ben poche cose da dire». Ne deriva, aggiungo io, che il parlare consueto deve rendersi pienamente cosciente di questi silenzi, che ci permettono di dire e argomentare su qualsiasi cosa pur continuando a dire veramente sempre quelle poche cose.



Il testo come detto è del 1978, ha un piglio “furioso”, non (solo) nel senso di lotta e rabbia sociale, ma proprio di energia folle. Risulta un po’ spiazzante leggere come «entro 20 o 30 anni – prima del 2000, cioè – la psichiatria non esisterà più» (ehm…). Insomma, fa parte della retorica messa in campo. Una considerazione che mi viene da fare è che il risvolto reazionario del potere che è esploso dagli anni ’80 in poi ha plagiato la sessualità orgasmica per scopi mistificatori e conformisti slegandola spesso e volentieri dal discorso affettivo. Ma questo non è un critica negativa a Cooper, se mai è un’aggiunta ulteriore, dove oggi, per sessualità orgasmica si dovrebbe intendere proprio quella che svincola dall’omologazione consumistica e recupera, assieme al godimento, tutto il senso dell’affettività.
Ma ora passiamo alle coincidenze. Perché accidentalmente, passeggiando domenica scorsa per le vie del centro, passo davanti alla libreria Arethusa, specializzata nei saperi trascendentali ed esoterici, e vedo programmato per il giovedì successivo un incontro con la presentazione di un libro su James Hillman, presente l’autrice, la psicologa Selene Calloni Williams. Mi incuriosisco perché Hillman è stato uno psicologo e uno psicanalista junghiano che davvero ha trasceso il discorso psicoterapeutico (andando oltre anche a Jung, che già aveva spiazzato, in modo un po’ frammentario, molte basi freudiane). Vado a quest’incontro. Comincia una narrazione (non saprei come altro definirla) che evade gli accademismi come i paternalismi («degli psicotecnici», direbbe Cooper). Con un tratto molto gentile, intessendo la presentazione del libro con i riferimenti personali che in effetti nel libro sono assai presenti, l’autrice spiega il suo rapporto personale con Hillman, «suo maestro occidentale» (la Williams ha avuto prima un’iniziazione ascetica in oriente), e di fatto comincia a parlare in termini prettamente Hillmaniani di ricerca alchemica, con riferimenti ai miti classici, e alle pratiche trascendentali orientali, al senso estetico, armonico, dell’esistenza. Tutto per spiegare il concetto di «psicologia immaginale». Io ascolto molto coinvolto e appassionato e successivamente mi si accende una lampadina, perché mi si rivela una cosa che in fondo sapevo già. La Williams, attraverso Hillman, dice la stessa cosa di Cooper. Da una prospettiva diversa, ma che è semplificativo definire opposta.
Cooper individua un discorso che potremmo sintetizzare in tre passaggi, in tre aggettivi: epistemologico, politico, sociale. Nell’incontro alla libreria Arethusa il discorso potrebbe essere spiegato con altri tre termini: mitico, animico, poetico. Ma sostanzialmente offrono una stessa convinzione. L’idea cioè che la follia (o più in generale la sofferenza, la passione) va ripresa, vissuta in pieno. Alcuni punti chiave o coincidenze tra i due discorsi. Ciò che per Cooper sono le mistificazioni capitalistiche dettate dallo sfruttamento della forze sociali subalterne, per Hillman, in modo analogo, era la pretesa oggettività materiale dell’esistenza, prodotta dalla cultura patriarcale, freddamente tecnica, che si inganna con i concetti arbitrari – morali – di bene e male, che sono appunto un inganno della mente. Cooper indica ad esempio la sessualità orgasmica o l’espressione creativa come snodi della sua rivoluzione; Hillman, da buon alchimista, indica il rapporto erotico, mitico tra la divinità maschile e quella femminile, tra l’esistenza umana e quella divina, nell’esistenza che «ripete nel tempo ciò che gli Dei fanno nell’eternità». Cooper sprona e individua la strada per una rivoluzione sociale con la follia che destruttura e ristruttura; Hillman e la Williams oltrepassano i concetti terapeutici indicando un «fare Anima», non un oscuro scrutare nella psiche (la psicanalisi intesa come la pratica del ritiro delle proiezioni, o detta nei termini ascetici induisti, un ritorno liberato – sacrificale – alla realtà). Impressionante analogia dell’epistemologia: come Cooper nega i bisogni dell’avere, così Hillman ci dice che non «abbiamo l’anima» ma la «facciamo» (agiamo per essere). Entrambi i punti di vista sfociano nella concezione poetica dell’esistenza e del linguaggio che la sostiene. Liberazione e mito; Amore e Psiche; coscienza e consapevolezza di sé e della società. Entrambi oltrepassano la terapia. Cooper arrivando a dire che l’azione successiva all’antipsichiatria sarà la non-psichiatria, che rende obsoleto, vuoi le categorizzazioni diagnostiche, vuoi le categorizzazioni di psichiatra, psicologo, e pure di antipsichiatra. La Williams, quasi per rispondere alle provocazioni di Hillman, dal canto suo ha fondato una società che propone dei percorsi trascendenti di cura che si chiama Nonterapia. (Ha sede in Svizzera, ma opera anche in Italia, a Milano, e in Scozia, ad Edimburgo).



Si potrebbe quasi sintetizzare che i due punti di vista non sono che la formulazione esoterica (animica-trascendentale) ed essoterica (politica sociale) della stessa necessità.  
Ora, a conclusione di queste considerazioni, voglio ribadire che queste cose mi erano già note anche prima che, grazie a questi incontri e libri, le potessi ben argomentare per iscritto. Come? Perché fanno parte della mia personale esperienza. Perché se per esempio Cooper “scopre” (analizzando tra l’altro l’allora fervente situazione italiana – nel 1978 stava per essere promulgata la legge Basaglia) che la rivoluzione si attua dentro e fuori le istituzioni psichiatriche (ospedali e società, tra i folli «accertati» come in tutti i rapporti umani) anch’io mentalmente e dialetticamente mi sono sempre mosso nei due registri, cercando sempre di abolire le presunte distinzioni. L’alchimia è anche un fatto mediale, di ricongiunzione, tra esoterico ed essoterico. Perché l’io diviso, per citare Laing, si confà a questa prassi (ma è ciò che sta in ciascuno di noi: come disse Pasolini, la schizoidia è del mondo…). Perché nella mia esperienza ho avuto la fortuna e l’intenzionalità di vivere, al pari e parallelamente all’intimità con i miei daimon, il discorso sociale, in una realtà come l’associazione Arcobaleno che, al pari di altre, pone l’accento sul «diritto alla follia» e cerca di trovare un punto di accoglienza e approdo per sostenere la cittadinanza della follia. Dunque la cittadinanza che prende coscienza della propria follia nel momento in cui accoglie i folli senza pretendere di “correggerli”. Così per me è stato ed è, arrivare e partecipare alle riunioni di Segn/Ali (la rivista di Arcobaleno), un atto politico, intriso di interesse personale e ulteriore rilancio verso la società. Di pari passo ho partecipato e partecipo ad un’altra esperienza, coltivata sia in privato sia nel collettivo del Circolo Poetico Orfeo, che si offre di portare alla luce (alla voce) la poesia che ci «fa l’Anima».  
Indiscutibilmente, la sfida futura della psichiatria, quella per intenderci della «guarigione» o «recovery» che dir si voglia, potrà essere vinta solo favorendo culturalmente, dentro e fuori l’istituzione, entrambi gli aspetti che mirano, che convergono nello stesso punto: la possibilità e il sacrosanto inalienabile diritto di essere se stessi. Che è un bene che fa leva sul bello, l’etico con l’estetico, il logos con la sensazione, l’emozione, l’esperienza: la pato-logia. Per questo oggi come in futuro, dovremmo pretendere «dal primo rivoluzionario che è in ciascuno di noi» come dal servizio psichiatrico, di «fare Anima», di stare bene nel bello. E se ci continuano a ripetere che il tempo sta per scadere (la crisi, la ripresa, la corsa agli armamenti, l’ultimo modello di cellulare…) dovremo agire per continuare a sognare perché stiamo solo distraendoci da ciò che occorre «fare e dire»: donare a noi stessi e al prossimo il senso di eternità che ci è proprio, che ci suggeriscono gli Dei come testimoniano i miti, «queste cose che non avvennero mai, ma sono sempre».


Enea Solinas